Rivista Anarchica Online


personaggi

Lo sguardo anarchico
intervista di David Goodway
a Colin Ward

 

Sta per uscire, edito da Elèuthera, un libro-intervista con Colin Ward architetto, pubblicista e anarchico. Eccone alcuni stralci del primo capitolo.

Prima di tutto vorrei farti la domanda più ovvia: raccontami come sei diventato anarchico.

Provengo da una famiglia di laburisti della periferia orientale di Londra, e dell’esistenza di un movimento anarchico ho saputo ai tempi della guerra di Spagna.
(…). Come qualsiasi ragazzo che lavorava nel centro di Londra per la prima volta, passavo un sacco di tempo a esplorare la City. Mi ricordo di avere scoperto il Socialist Book Centre di Essex Street, ai margini dello Strand, che era gestito da un amico di Orwell, Jon Kimche. È lì che ho scoperto le opere di Orwell, che non era facile trovare in altre librerie, e riviste come “Tribune” e “New Leader”.
Alla pari di tutti i miei coetanei (non conoscevo ancora nessun obiettore), a diciotto anni fui arruolato nell’esercito (era il 1942) e, dato che lavoravo in uno studio di architettura, fui immediatamente destinato al corpo dei genieri. Mi insegnarono a costruire ponti e a farli saltare, ma ci deve essere stata un’improvvisa carenza di disegnatori, perché, secondo quel sistema fantastico con cui funziona la strategia militare, fui destinato alla Army School of Hygiene, per fare disegni su disegni di latrine e insetti velenosi come guida per chi costruiva accampamenti e impianti igienici.
Poi, nell’autunno del 1943, la stessa insondabile strategia militare mi fece trasferire in Scozia, a Glasgow, per lavorare in una tenuta requisita in Park Terrace, con una splendida vista sulla città fumosa sotto di noi, dove, per la prima volta dalla fine della prima guerra mondiale, l’industria pesante era in piena espansione. La domenica avevo un permesso e lo utilizzavo girando per la città o passando ore alla Mitchell Library, la bellissima biblioteca pubblica aperta la domenica, fino al momento in cui potevo andare ad ascoltare i comizi politici in piazza. A Glasgow c’era una lunga tradizione in questo campo e, all’epoca, l’anarchismo era rappresentato da due oratori particolarmente brillanti e spiritosi, Eddie Shaw e Jimmie Dick. In quelle occasioni si distribuivano volantini che invitavano nella libreria anarchica di George Street e nella adiacente sala riunioni sopra il pub “Al Riposo dell’Impiccato” di Wilson Street.

Versioni in apparenza incompatibili

Suppongo fossero operai che riuscivano a coniugare ideologicamente l’individualismo alla Stirner con il sindacalismo?

Sì, hai ragione. Tutti e due i personaggi che ho citato riunivano in sé le versioni dell’anarchismo in apparenza più incompatibili. L’anarchico di Glasgow che più mi colpiva era, però Frank Leech. Era un irlandese, ma non veniva dall’Irlanda, bensì dal Lancashire, ed era stato campione di pugilato della Marina nella prima guerra mondiale. Aveva una posteria in uno di quei quartieri residenziali ai margini della città. Lì ospitava profughi dalla Germania e dalla Spagna e lavorava con un tornio a stampa. Quando gli parlai delle pubblicazioni ufficiali americane che avevo letto alla Mitchell Library e che descrivevano i piani per l’Europa del dopoguerra, mi sollecitò a condensarli in articoli per la rivista londinese “War Commentary – for Anarchism” e a spedirli alla signora M. L. Richards. Gli diedi retta e il materiale fu pubblicato, mi pare, nel dicembre del 1943.
In quel periodo Leech ebbe guai con la legge e decise un’azione di propaganda inscenando uno sciopero della fame nel carcere di Barlinnie. Era un personaggio assai popolare e i suoi amici, preoccupati per la sua salute, mi spinsero a fargli visita in prigione per cercare di convincerlo a desistere (pensando che un soldato in uniforme, con un accento londinese e non scozzese, avesse più probabilità di avere un permesso dal direttore del carcere). La mia visita fu evidentemente notata, perché subito dopo l’esercito mi trasferì in un’unità addetta alla manutenzione sulle isole Orcadi e Shetland, nella zona remota all’estremo nord-est della Scozia.
In questa vicenda c’è un aspetto ironico: la mia sospetta inaffidabilità mi ha tenuto lontano dai guai per il resto della guerra, mentre molti altri coscritti della mia generazione sono caduti in battaglie dimenticate e senza senso nel Sudest asiatico.
Ma quegli anarchici impegnati e autodidatti di Glasgow mi avevano ormai conquistato alla causa anarchica, facendomi conoscere la loro libreria, vendendomi tutta la stampa anarchica che avevano a disposizione e mettendomi in contatto (postale, per il momento) con Freedom Press a Londra.

Che cosa ti attraeva dell’idea anarchica, in un’epoca in cui l’entusiasmo per il comunismo sovietico era all’apice?

Non sono del tutto sicuro di come io sia riuscito a non essere infettato dall’idolatria per Stalin che affliggeva la sinistra britannica. Ma tra le pubblicazioni in vendita nella libreria anarchica di Glasgow c’erano gli scritti di Emma Goldman e di Alexander Berkman. Frank Leech stesso aveva stampato e pubblicato il pamphlet di Emma Goldman Trotsky Protests Too Much. Mi avevano colpito, molto presto, anche le opere di Arthur Koestler e di George Orwell. Lilian Wolfe, una veterana dei primi anni di Freedom Press, aveva messo il mio nome nell’elenco dei destinatari di vari giornali del dissenso, per esempio di “politics”, che Dwight Macdonald pubblicava dal 1944: tutte quelle pubblicazioni avevano come tratto comune l’avversità nei confronti dello stalinismo onnipresente sulla stampa della sinistra “regolare”. Sempre nel 1944 Freedom Press aveva pubblicato il libro di Maria Luisa Berneri, Workers in Stalin’s Russia, che avrebbe visto più ristampe negli anni del dopoguerra e in cui si sosteneva che il criterio fondamentale per giudicare qualsiasi regime politico era: “In che condizioni si trovano gli operai?”, e che, secondo questo criterio, il regime sovietico era un disastro, con gli stessi estremi di ricchezza e di povertà del mondo capitalista. Il libro era uscito in un momento in cui, per tacito accordo, la stampa britannica non criticava l’Unione Sovietica. Sono sicuro che le generazioni a venire non riusciranno mai a capire fino a che punto le idee marxiste e staliniste abbiano condizionato le teorie degli intellettuali inglesi ed europei.

David Goodway

Ricerca di certezze estreme

Come spiegheresti questa infatuazione quasi religiosa?

È stata una specie di conversione per molti: la ricerca di certezze estreme. Forse è stato Orwell che l’ha definita “patriottismo dislocato”, riferendosi con questo a quanti, avendo abiurato a una lealtà incondizionata per il Paese di nascita, l’applicano, come un cerotto, a un altro Paese. Lo abbiamo visto bene nei decenni del dopoguerra in cui i marxisti inglesi, delusi dallo stalinismo, hanno offerto la loro lealtà prima alla Jugoslavia di Tito e, delusi ancora una volta, sono poi passati immediatamente alla Cuba di Castro. Non conosco armi capaci di sconfiggere questa tendenza, se non quella del ridicolo.

Come definisci l’anarchismo? Sei socialista? Il tuo essere anarchico include quello dei sindacalisti, degli individualisti, dei pacifisti...?

Per dare una definizione dell’anarchismo ricorro sempre alle parole di apertura di un articolo scritto da Kropotkin per l’undicesima edizione dell’Encyclopedia Britannica nel 1905, in cui spiega che è

il nome dato a un principio, o a una teoria della vita e del comportamento in base alla quale la società è concepita senza governo: l’armonia al suo interno si ottiene non per sottomissione alla legge o per obbedienza a una qualsivoglia autorità, ma per libero accordo stipulato tra i vari gruppi, territoriali e professionali, liberamente costituiti per fini di produzione e consumo, come pure per la soddisfazione dell’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni di un essere civile.

Io sono completamente d’accordo con questa definizione, che poi Kropotkin estende. Ciò significa che io sono, per definizione, un socialista o quello che Kropotkin avrebbe definito un anarco-comunista. Ma allo stesso modo sottolineo sempre che esiste un terreno comune per persone che sono arrivate a un approccio anarchico attraverso percorsi differenti. Credo che il gruppo di Freedom Press degli anni della guerra riunisse persone che esprimevano tutte le tendenze che citavi e che questa sia stata una caratteristica di quelli legati a “Freedom” per tutto il periodo della sua storia.
In realtà non mi fido di quegli anarchici che passano il tempo a demolire le posizioni di un’altra frazione anarchica.

Capisco ciò che vuoi dire, ma devo insistere su un aspetto. Io non vedo alcun riferimento al socialismo (la proprietà comune dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio) nella definizione che hai preso da Kropotkin.

Perché la maggior parte delle versioni del socialismo che conosciamo implicano l’attività di un governo centrale o locale. Ma il movimento cooperativo mette in campo in tutto il mondo una molteplicità di forme di proprietà comune dei mezzi di produzione, di distribuzione e di scambio, senza dipendere dallo Stato.

Certo, ma ritengo che la definizione di Kropotkin attenga allo specifico campo dell’anarchismo e non del socialismo, anche se ha forse implicazioni socialiste. In che rapporto ti metti, personalmente, con il sindacalismo?

Mi sembra che il controllo operaio della produzione industriale sia l’unico approccio compatibile con l’anarchismo, per questo sono automaticamente un sostenitore degli obiettivi del sindacalismo. Tuttavia, ho visto spesso come una minoranza militante tentasse di alimentare conflitti di importanza secondaria fino a farli diventare lotte estreme, perdendo inevitabilmente l’appoggio della maggioranza e facendo sì che i normali operai temessero la militanza. I sindacalisti, come i romanzieri e i sociologi, tendono a sopravvalutare la presenza delle grandi fabbriche fordiste, organizzate con precisione militare, nel settore manifatturiero, quando, come Kropotkin rilevava un secolo fa, il posto di lavoro tipico è in una piccola officina. Forse, quando i sindacalisti riusciranno a fare a meno di un certo romanticismo storico, sapranno sfruttare appieno le nuove tecnologie della comunicazione per combattere il capitalismo internazionale su scala globale.

E l’individualismo?

Non c’è bisogno che ti dica che le persone più individualiste che ho conosciuto erano tra quelle che respingevano l’ideologia dell’individualismo e credevano fermamente nel comunismo anarchico. Non è una battuta, ma un’osservazione che faccio quasi ogni giorno.

Posizioni diverse

E il pacifismo?

Anche qui ho potuto osservare varie generazioni di anarchici che hanno avuto posizioni diverse riguardo alla violenza e alla non-violenza. Mi ricordo di un simpaticissimo vecchio irlandese, un anarchico dei tempi andati, Matt Kavanagh, che ripeteva spesso (parlando di persone che tu e io conosciamo bene): “Il guaio dei pacifisti è che ti tirerebbero un bel pugno sul naso senza starci a pensare due volte!”. Ma a chi considera ingenuo o semplicistico il pacifismo contemporaneo, io consiglierei di leggere il libro del mio amico Michael Randle, Civil Resistance, che discute le potenzialità e i limiti dell’azione pacifista.
Sono sicuro che George Orwell – il quale durante la seconda guerra mondiale ha dedicato tantissimo tempo ad attaccare la posizione pacifista di suoi amici come Alex Comfort e George Woodcock – osserverebbe, nonostante tutto, che coloro che sono più proni a criticare l’ideologia della nonviolenza sono anche quelli che hanno meno dimenticanze con la natura orribile, squallida e arbitraria della violenza.

Per tutta la tua vita di adulto sei sempre stato legato alla stessa casa editrice di Londra, Freedom Press. Mi vuoi dire qualcosa della sua storia?

Il primo numero di “Freedom” era uscito nel 1886, curato da una donna straordinaria, Charlotte Wilson, che era in corrispondenza con Kropotkin e con sua moglie Sophie, sollecitandoli a trasferirsi in Inghilterra dopo che Kropotkin era uscito dal carcere in Francia, nel gennaio 1886. La notorietà di lui e la capacità organizzativa di lei produssero una rivista che prendeva le mosse dall’esperienza ginevrina di Kropotkin con “Le Révolté”, nel 1878, da quella parigina de “La Révolte”, nel 1885.
Il periodico da loro fondato riuscì a sopravvivere, nonostante le irruzioni della polizia e le incarcerazioni nel corso della prima guerra mondiale, fino al 1928. In quell’anno Tom Keell, che ne era stato lo schivo direttore editoriale dal 1907, lasciò Londra con la sua compagna Lilian Wolfe alla volta della Whiteway Colony, una comune tolstoiana dell’Inghilterra occidentale che, fin dalla sua fondazione nel 1898, era diventata l’ospitale rifugio di molti anarchici.
Keell continuava a pubblicare un “Freedom Bulletin” per gli abbonati rimasti e intanto cercava di scorgere i segnali di una ripresa della attività anarchica. Questi si presentarono nel 1936, quando fu interpellato da Vernon Richards, figlio di un vecchio anarchico italiano trasferitosi a Londra, Emidio Recchioni (1864-1934), il quale aveva un noto negozio di alimentari, King Bomba, al 37 di Old Compton Street, a Soho. Vero, come si chiamava in realtà e come lo chiamavano gli amici, aveva fondato una rivista, “Free Italy”, che dopo gli eventi del 1936 fu rimpiazzata da “Spain and the World”. E Tom Keell si rallegrò del fatto che ci fosse un nuovo spazio per ospitare le idee e i vecchi opuscoli che aveva tenuto da parte. Quando la guerra di Spagna si avviò ormai alla sua triste conclusione, nel 1939, la rivista cambiò ancora nome, prima con “Revolt!” e poi con “War Commentary – for Anarchism”, per poi ritornare alla testata originale, “Freedom”, nel 1945. Nel 1943 Lilian Wolfe, che aveva gestito un negozio di alimentari a Stroud, nel Gloucestershire, lo lasciò all’età di sessantasette anni, per gestire l’ufficio di Freedom Press a Londra. È morta nel 1974, a novantotto anni, e Nicolas Walter racconta: “Per oltre venticinque anni Lilian Wolfe è stata la colonna dell’amministrazione di Freedom Press nelle varie sedi che la casa editrice ha avuto a Londra. Era lei la persona da cui dipendeva tutta l’organizzazione: la persona di assoluta fiducia che fa andare avanti l’ufficio, apre e chiude il negozio, risponde al telefono e alle lettere, tiene la contabilità e mantiene i contatti. Era in rapporto personale con migliaia di lettori della rivista...”. Il che è senz’altro vero anche nel mio caso. Quando le scrivevo in modo vago da un indirizzo militare, mi rispondeva sempre e mi mandava copie di riviste straniere, come “La Protesta” di Buenos Aires e “L’Adunata dei Refrattari” di New York.

Ho ragione di pensare, però, che tu abbia incontrato il gruppo di Freedom Press una prima volta sul banco degli imputati della Central Criminal Court di Londra, mentre stavi tra i testimoni d’accusa?

Sì, è vero. Di tutti i Paesi europei coinvolti nel conflitto mondiale, l’Inghilterra era quello dove era meno difficoltoso sopravvivere per chi si opponeva alla guerra. Più tardi, nel dopoguerra, gli anarchici francesi, olandesi e italiani che ho conosciuto si meravigliavano della tolleranza nei confronti di chi dissentiva che c’era qui da noi. Come chiunque sia stato costretto alla coscrizione obbligatoria, io avevo ben poche informazioni al riguardo, anche se poi ho conosciuto renitenti alla leva che per questo erano soggetti a continue incriminazioni e arresti. I giornali che si opponevano recisamente alle finalità belliche del Paese in guerra erano pochissimi, perciò “War Commentary” era l’oggetto scontato delle attenzioni della Special Branch (la polizia segreta del governo inglese), ma le incriminazioni più serie cominciarono solo nell’ultimo anno di guerra. Nel novembre 1944 fu arrestato John Olday, il vignettista del giornale, e dopo un lungo processo fu condannato a dodici mesi di prigione per “essersi appropriato di una carta d’identità smarrita” (ed essendosi rifiutato di rispondere agli inquirenti era stato di conseguenza condannato). Uno dei lettori, tale T. W. Brown, era stato arrestato in precedenza per avere distribuito volantini “sediziosi”. Al momento della sentenza del tribunale penale, il pubblico ministero aveva messo in evidenza il fatto che in base alla legge in vigore avrebbe potuto essere condannato a quattordici anni di carcere.
Il 12 dicembre 1944, alcuni agenti della Special Branch fecero irruzione negli uffici della redazione di Freedom Press e nelle case di redattori e simpatizzanti. Agivano ai sensi di una norma della legge marziale, la Defence Regulation 38b, la quale stabiliva che “è proibito a chiunque distogliere i membri delle forze armate dal proprio dovere”. Alla fine di dicembre, altri agenti della polizia segreta, guidati dall’ispettore Whitehead, perquisirono gli effetti personali di un certo numero di soldati in varie zone del Paese. Solo per caso in quel momento mi trovavo in un carcere militare (il mio crimine era di “non avere ubbidito a un ordine”, ma in realtà si trattava di un “conflitto di competenze”, come lo definirebbe oggi un sindacalista. Mi avevano chiesto di fare un lavoro che in genere veniva svolto da una persona qualificata, cosa che io non ero, e quindi mi ero rifiutato. Solo per dar fastidio al mio comandante, avevo spinto la cosa fino alla corte marziale!).
Ma non avevo fatto bene i miei calcoli e infatti venni portato, sotto scorta di due guardie armate della polizia militare, dal campo di prigionia sull’isola di South Ronaldsay alla mia compagnia di stanza nelle Orcadi, a Stromness. Pareva la storia del Buon Soldato Schweik. In mia presenza il comandante frugò tra le mie cose e la mia posta, sequestrando vari libri e parecchie carte.
Quando fui rilasciato, inoltrai subito una richiesta formale per riavere indietro quanto mi avevano portato via. Il mio comandante dichiarò di non essere autorizzato a restituirmi niente e pochi giorni dopo fui mandato dall’ispettore Whitehead per essere interrogato. Scrissi a Lilian Wolfe raccontandole quanto mi era successo, ma la posta dalle Orcadi era censurata e (come seppi poi) gran parte di quello che avevo scritto era stato cancellato dalla censura. Avevo allora scritto un’altra lettera, convincendo un civile a impostarla dalla terraferma in Scozia. Questa lettera mi fu poi presentata quando testimoniai al processo contro Freedom Press. Anni dopo la stessa lettera e altri oggetti che mi erano stati sottratti, compresi i numeri incriminati della rivista, mi furono restituiti, e mi resi conto che a Lilian avevo scritto così:

Whitehead mi ha messo davanti l’articolo All Power to the Soviets del numero di novembre di “War Commentary” e una copia della Lettera alle Forze Armate di Freedom Press della stessa data, chiedendomi se li avevo letti. Ho detto di sì. Mi ha indicato un capoverso dell’articolo, che parlava dell’effetto rivoluzionario dei Consigli dei soldati nella Russia del 1917, e un paragrafo della Lettera che domandava ai destinatari, in termini generici, dell’esistenza e dell’attività di Consigli dei soldati. Mi ha chiesto che idea mi ero fatto dalla lettura dei due articoli insieme e se li considerassi un’istigazione all’ammutinamento. Ho risposto quanto più vagamente possibile...

(…).

Colin Ward

“Non mollate i fucili!”

Erano davvero colpevoli di qualche reato?

Tutto il processo si basava sull’ipotesi accusatoria dell’ispettore Whitehead, che metteva in collegamento la Lettera inviata a un centinaio di militari abbonati a “War Commentary” con vari articoli sulla storia dei Consigli dei soldati, sorti in Russia e in Germania tra il 1917 e il 1918, e sulla situazione dei movimenti di resistenza europei ai quali, con l’avanzare delle forze alleate nel 1944, veniva detto di deporre le armi consegnandole ai governi imposti dalla forza degli eserciti. Uno dei titoli di testa su “War Commentary” diceva per esempio: “Non mollate i fucili!” L’accusa lo utilizzò per dimostrare che la rivista incitava i militari a non restituire le armi e a utilizzarle per un’eventuale azione rivoluzionaria. In realtà l’articolo (come si evinceva chiaramente dal contesto) era rivolto alla resistenza belga, dopo che l’esercito tedesco si era ritirato e prima che s’imponesse un nuovo regime. Tutte le “prove” presentate dall’accusa erano altrettanto inconsistenti. I quattro soldati (me compreso) convocati dall’accusa per provare di avere ricevuto il materiale illegale, testimoniarono per la difesa affermando di non essere stati influenzati negativamente.
I redattori imputati (che fra l’altro riuscirono a dimostrare di non essere, per ragioni di stile, gli autori delle circolari inviate ai soldati) non erano contenti della linea di difesa adottata. Ma se lo scopo del processo era di mettere a tacere Freedom Press, non sarebbe stato saggio assumere un atteggiamento intransigente e di conseguenza subire condanne molto più pesanti. Il reato di fomentare il malcontento tra i militari prevedeva infatti una pena fino a quattordici anni. Per come andarono le cose, i redattori furono condannati a pene più lievi rispetto a T. W. Brown e a John Olday, i cui “reati” erano più insignificanti. In effetti Maria Luisa e George Woodcock riuscirono a non interrompere le pubblicazioni della rivista mentre i compagni restavano in prigione.
In Inghilterra esisteva un’organizzazione, il National Council for Civil Liberties, che fungeva da gruppo di pressione in casi analoghi al processo contro Freedom Press, ma in quel particolare periodo della sua storia era finito sotto il controllo dei comunisti ed era soprattutto impegnato a chiedere che fosse nuovamente arrestato sir Oswald Mosley, il capo dei fascisti inglesi, che era rimasto per quasi tutta la guerra in prigione. Così si organizzò un Freedom Press Defence Committee, su iniziativa dell’artista surrealista Simon Watson Taylor, che ottenne il sostegno di personalità pubbliche, fra le quali Bertrand Russell, George Orwell e Benjamin Britten. Poi il comitato non si sciolse, ma prese il nome di Freedom Defence Committee, occupandosi per esempio della difesa dei disertori e dell’internamento dei fuorusciti spagnoli trattati come prigionieri di guerra. Grazie al comitato, gli spagnoli furono rilasciati.

Sei stato congedato in ritardo dall’esercito, solo nel 1947, e ti hanno chiesto immediatamente di entrare nella redazione di Freedom Press. Quali erano le personalità più importanti di quel gruppo straordinario e come ti hanno influenzato?

Indubbiamente era un gruppo dotato di grande talento: mi avevano colpito profondamente e sono diventati miei amici per tutta la vita. Ho avuto la possibilità di incontrarli tutti insieme in occasione dei festeggiamenti per il rilascio dei redattori condannati. Già nel 1946 ero stato trasferito dalle Orcadi (non costituendo più un pericolo per la sicurezza nazionale) a un’altra unità del genio insediata in un campo di polo nell’area sudorientale di Londra. Le nostre mansioni consistevano nello scavo di latrine per i fanti, i marinai e gli avieri che dovevano partecipare alla parata per la vittoria in Hyde Park (il parco reale, in pieno centro di Londra, che era stato trasformato in un pascolo per le pecore durante la guerra). Fu per me l’occasione per scrivere una serie di articoli sul nascente movimento delle famiglie di senzatetto che occupavano gli accampamenti militari ormai vuoti, ma anche per prendere parte alle riunioni organizzate dal London Anarchist Group e dal Freedom Defence Committee per richiamare l’attenzione sullo stato in cui versavano almeno un centinaio di fuorusciti, reduci della guerra di Spagna, che in Francia erano stati costretti ai lavori forzati durante l’occupazione tedesca e che ora erano trattati dagli inglesi come prigionieri di guerra e rinchiusi in un campo di concentramento nel Lancashire.
Le personalità centrali erano senza dubbio Vero e Maria Luisa, anche per il semplice fatto che partecipavano da tempo alla redazione della rivista: Vero fin dal 1936, quando aveva ventun anni, e Maria Luisa dal suo arrivo in Inghilterra nel 1937, quando era diciottenne, dopo che suo padre Camillo Berneri era stato ucciso a Barcellona. La conoscenza che avevano del movimento anarchico internazionale, delle tendenze e dei principali esponenti, e la capacità di utilizzare più lingue facevano sì che le loro opinioni fossero le più ascoltate.
Vero era dotato di grande fascino e si dedicava con diletto all’arte culinaria, preparando piatti deliziosi con semplici ingredienti. Aveva studiato ingegneria civile e fino al suo arresto aveva lavorato nelle costruzioni ferroviarie. Era avvincente ascoltarlo quando parlava di treni e stazioni, ma non ha scritto mai niente sull’argomento. Purtroppo è morto, a ottantasei anni, proprio nel corso di queste nostre conversazioni. Mi è sempre dispiaciuto di non essere riuscito a convincerlo a scrivere dei vari aspetti della vita, magari dal punto di vista dei bambini urbani, delle strade ferrate o di orticoltura, tutti argomenti di cui aveva un’esperienza diretta e cose importanti da dire.
Poi, inutile dirlo, tutti quanti erano innamorati di Maria Luisa. Un famoso giornalista inglese, Frances Partridge, la descrive così raccontando di una visita fatta, il 22 gennaio 1941, allo scrittore Gerald Brenan e a sua moglie: “Avevano come ospite in casa una loro amica, l’anarchica italiana Maria Luisa, che aveva sposato il figlio di King Bomba, il droghiere di Soho. Credo che sia la ragazza più bella che io abbia mai visto, e la sua bellezza si accompagna a un’estrema dolcezza, a una voce bassa e roca e a un’evidente intelligenza”. E quando Lewis Mumford, anch’egli autore di uno studio sulle utopie, scrisse la recensione del libro di Maria Luisa, Journey Through Utopia (1), trovò che fosse “un libro che solo un’intelligenza audace e uno spirito ardente sono in grado di produrre”.
Ho pochissimi ricordi personali di Maria Luisa. Uno riguarda l’occasione in cui abbiamo pranzato insieme in una modestissima trattoria greca, mangiando un piatto di moussaka e discutendo dell’importanza di William Morris. Si comportava come se quel normalissimo pasto fosse un’occasione speciale, come in effetti lo era per me. La conoscevo solo da due anni e spesso mi sono chiesto quali e quanti libri avrebbe potuto scrivere, se non fosse tragicamente morta a soli trentun anni, nel 1949.
Un altro membro della redazione di Freedom Press che ha dato un contributo immenso in quei giorni era George Woodcock. Era nato in Canada, nel 1912, ed era stato portato in Inghilterra da bambino. E in Canada ritornò nel 1949, affermandosi come uno dei più noti autori del Paese. Allo scoppio della seconda guerra mondiale aveva una posizione pacifista, nel 1940 aveva pubblicato una rivista di letteratura, “Now”, e nel 1942 era entrato nell’indaffaratissima redazione di “War Commentary”.
Era di gran lunga il più prolifico dei nostri polemisti, scrivendo una serie di pamphlet nel campo in cui la propaganda anarchica in inglese (e forse anche in altre lingue) era debolissima: quello dell’applicazione delle idee anarchiche ad aspetti specifici del sociale. Ero stato attratto dai suoi scritti perché tra questi c’era il saggio Railways and Society e un suo panphlet sul problema degli alloggi, Homes or Hovels?. Ma per me ebbe soprattutto importanza il suo studio sul regionalismo, in una serie di articoli per “Freedom” (e più tardi inserito, mi pare, nella sua biografia di Kropotkin), dove metteva in collegamento i geografi regionalisti francesi come Réclus, per il tramite di Kropotkin e di Patrick Geddes, con le tesi sul decentramento di Ebenezer Howard, la Regional Planning Association of America e l’opera di Lewis Mumford. George è morto nel 1995 a Vancouver.
John Hewetson (1913-1990) era arrivato all’anarchismo passando dal Forward Movement, nato dalla scissione di un’associazione pacifista, la Peace Pledge Union, e aveva cominciato a scrivere su “War Commentary” nel 1942. Faceva il medico e al momento del suo arresto era primario di traumatologia all’ospedale di Paddington. Uscito di prigione, per il resto della vita ha fatto il medico generico nei quartieri poveri di Londra. È stato tra i primi a battersi per la contraccezione gratuita e per l’aborto e ad avere un atteggiamento aperto nei confronti dei consumatori di droghe.
Philip Sansom (1916-1999) proveniva dalla mia stessa zona di Londra e insegnava grafica pubblicitaria al West Ham Technical College. Lavorava i campi, da coscienzioso obiettore del servizio militare, quando, nel 1943, scoprì gli anarchici e i surrealisti di Londra. Su “War Commentary” e poi su “Freedom” si occupava del mondo sindacale ma disegnava anche vignette di grande forza satirica. Sono sue le copertine di molti titoli pubblicati da Freedom Press, da Ill-Health, Poverty and the State di John Hewetson in poi, e ritroviamo la sua grafica magistrale anche su vari opuscoli di Freedom Press. Nel dopoguerra lavorò nella tipografia che stampava la rivista e io ricordo bene due occasioni in cui mi telefonò al lavoro per chiedermi il permesso di tirare copie in più di miei articoli per distribuirli come volantini dal suo palco di oratore a Hyde Park. Io, inutile dirlo, mi sentivo enormemente lusingato dalla sua richiesta e lo fui ancora di più quando mi domandò di scrivere la prefazione del suo opuscolo Syndicalism: The Workers’ Next Step. Il tratto principale del suo carattere era una generosità senza riserve, e di lui mi restano nella memoria le franche risate e le canzoni improvvisate.
Quando entrai nella redazione di Freedom Press, vi faceva parte anche John Olday (1904-1977), le cui illustrazioni per la rivista sono raccolte nel volume The March to Death, dove erano corredate da notizie e articoli del tempo di guerra scelti da Maria Luisa Berneri. La prima edizione di questo libro è del 1943, ma è stato ristampato di recente. Olday aveva trascorso l’infanzia ad Amburgo – suo padre era inglese e sua madre tedesca (il suo vero nome era Arthur William Oldag) – e nella Germania prima del nazismo aveva fatto parte di un movimento giovanile simile a quello dei Wandervogel, partecipando poi alle lotte contro il nazismo. Le autorità tedesche non ignoravano le sue attività ed egli sfruttò la doppia nazionalità per riparare in Inghilterra nel 1938. Qui pubblicò la sua autobiografia, Kingdom of Rage e nel 1939 si arruolò volontario nell’esercito inglese. Quando decise di disertare, altri compagni del gruppo di “Freedom” ebbero il compito ingrato di gettare il suo fucile (un Lee-Enfield a canna lunga) nel canale vicino senza farsi vedere. Erano gli stessi messi in prigione per aver incitato i soldati a tenersi le armi! Olday era un uomo di grande fascino, che mi raccontava aneddoti folcloristici sui rivoluzionari tedeschi, come Max Hölz, e che mi ha insegnato qualche accordo di chitarra. Conosceva uno splendido repertorio di canti popolari della Germania del nord, che non avrei più riascoltato per quarant’anni, fino a quando ci sono state riproposte da Ruth, la compagna tedesca di mio figlio Tom. All’inizio degli anni Cinquanta John Olday emigrò in Australia, ma dopo vent’anni tornò portando in giro sulla scena gay inglese e tedesca uno spettacolo di cabaret.
(…). I colleghi della redazione di “Freedom” hanno avuto una forte influenza su di me, non solo nell’interpretazione dell’anarchismo, ma in tanti altri aspetti. Non dimenticarti che dai diciotto ai ventitré anni ero stato nell’esercito, per lo più in località remote, e di punto in bianco mi sono ritrovato in un ambiente che ai miei occhi appariva raffinato e cosmopolita. Fra le nuove gioie che potevo gustare c’era quella del cibo, soprattutto la cucina italiana e francese. E ovviamente, lavorando nel centro di Londra avevo fatto conoscere ai miei colleghi dello studio di architettura il King Bomba, dove un sempre sorridente Eugenio Celoria forniva a tutti suggerimenti gastronomici mentre impacchettava le vivande.
(…). Forse, però, la traccia più profonda che mi ha lasciato il gruppo di Freedom Press viene dal suo atteggiamento di libertà e di apertura nei confronti del sesso. Non c’è dubbio che nessun altro gruppo politico avesse nel suo programma qualcosa del genere, men che meno i marxisti. L’articolo di Maria Luisa Sexuality and Freedom uscito sulla rivista di George Woodcock “Now” (n. 5, 1945) è stato tra i primi ad aprire il dibattito sulla stampa inglese sulle teorie di Wilhelm Reich. E John Hewetson è stato un pioniere, tra i medici di sesso maschile, della contraccezione gratuita e dell’aborto su richiesta. Anch’egli, come Maria Luisa, era interessato alle implicazioni sociali delle tesi di Wilhelm Reich. Uno dei suoi colleghi nell’ambulatorio del Servizio sanitario nazionale a Londra era il dottor Robert Ollendorf, il cognato di Reich. (…).

Malatesta Club

Raccontami qualcosa di più della cultura anarchica degli anni Quaranta e Cinquanta.

Negli anni Cinquanta si era pensato di costituire un circolo anarchico nel pieno centro di Londra: all’inizio c’era uno scantinato a Holborn, non lontano dalla libreria di Freedom. Nel 1954 il circolo si è trasferito, con il nome di Malatesta Club, in Percy Street, nei pressi di Tottenham Court Road, una zona in cui quasi cento anni prima si erano insediati molti anarchici tedeschi, russi e italiani. Lo stesso Errico Malatesta, il più noto anarchico italiano, aveva abitato qui lavorando come elettricista. Il club ospitava concerti di jazz tradizionale e una lunga serie di oratori interessanti. Ciò che ricordo con più piacere sono certe canzoni satiriche scritte e cantate da Philip, che si accompagnava con un tamburo fatto con una scatola di cartone. Dopo quattro anni il club fu costretto a chiudere a causa dell’aumento degli affitti in centro città.
Non c’era ancora l’usanza di occupare edifici vuoti per farne centri sociali (l’unica eccezione era il Tenants’ Corner, un palazzo occupato nella zona sud di Londra, che per vent’anni ha offerto consulenze agli inquilini delle case comunali sui metodi per realizzare cooperative locali).

Poi c’erano le scuole anarchiche e le Summer Schools...

Sì, c’era la scuola progressista di Burgess Hill, nella zona nord di Londra, che tra il personale docente aveva molti anarchici: Tony Weaver, Tony Gibson, Marjorie Mitchell. Per quanto mi ricordi, lì si è tenuta la prima scuola estiva anarchica, nel 1947, seguita da un’altra a Liverpool nel 1948 e a Glasgow e sull’isola di Arran (nell’estuario del fiume Clyde, in Scozia) nel 1949. Vari anni dopo uno degli anarchici di Glasgow della mia generazione, Robert Lynn, ha organizzato una scuola estiva a scadenza annuale in quella città.
Uno degli organizzatori della prima scuola estiva anarchica cui ho partecipato era lo psicologo Tony Gibson (1914-2001), che insegnava alla Burgess Hill School, il quale continuò a organizzare campi estivi per bambini e adulti dal 1946 al 1957. A Londra, in effetti, tra gli anarchici c’era una vita sociale piuttosto intensa, ma chi doveva utilizzare le domeniche per scrivere articoli non aveva la possibilità di partecipare a tutte le iniziative.
Per me la persona più simpatica tra i superstiti della precedente generazione anarchica era Matt Kavanagh, un irlandese che, come Lilian Wolfe, era entrato nel gruppo di “Freedom” fin da prima della Grande Guerra e che, inutile dirlo, aveva parlato dallo stesso palco con Malatesta, Kropotkin, Emma Goldman e tutta una schiera di mitici oratori anarchici. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Matt viveva a Southend-on-Sea, nell’Essex, dove faceva regolarmente comizi (ed era minacciato in continuazione della polizia per violazioni delle leggi di guerra che imponevano l’eliminazione di ogni attività sovversiva).
Due ragazzini del posto, Norman Potter e suo fratello, che aveva assunto lo pseudonimo di Louis Adeane, si avvicinarono all’anarchismo grazie a Matt. Louis diventò un poeta e un critico, collaborando alla rivista di George Woodcock, “Now”. Nell’immediato dopoguerra mi incontravo spesso con lui e con la sua compagna, Pat Cooper, ma nel 1951 si trasferirono in Cornovaglia e il povero Louis morì ancora giovane poco tempo dopo.
Norman Potter si dedicò al design e alla produzione di mobili. È l’autore del libro What is a Designer?, che è considerato un testo fondamentale in materia. Negli anni Quaranta mi ritrovavo spesso con Norman e Caroline nella ospitale casa degli Hewetson, ma in seguito l’ho visto solo a intervalli di dieci anni, quando cercava di blandirmi perché facessi il discorso inaugurale ai suoi studenti di Londra, di Bristol o di Plymouth. Quando è morto, nel 1995, i necrologi hanno messo in evidenza il debito che aveva, come me, nei confronti del gruppo di Freedom Press. L’autore di uno di questi articoli, Robin Kinross, ha scritto:

Dal movimento anarchico inglese egli attinse una serie di idee e convinzioni che avrebbe conservato per tutta la vita. Si trattava di quel movimento colto e internazionalista fatto di personalità del calibro di John Hewetson, Maria Luisa Berneri, Vernon Richards e George Woodcock.

Nel mio ruolo di divulgatore anarchico da molti anni m’interesso della sociologia dei gruppi autonomi e quello di Freedom Press come l’ho conosciuto all’inizio mi sembra un esempio interessante, in quanto aveva una solida rete interna, basata sull’amicizia e sulla condivisione delle competenze, e una serie di reti esterne con contatti in diversi ambienti. Uno di questi, grazie a John Hewetson, era quello della sperimentazione nel campo della medicina sociale, con il centro sanitario di Peckham, nella zona sud di Londra; un altro riguardava la sperimentazione didattica, con la Summerhill School di A. S. Neill, dove Maria Luisa fece una serie di fotografie, e con la Burgess Hill School.
Proprio alla Burgess Hill School ho conosciuto Herbert Read, che era uno dei direttori della scuola. I suoi Poetry and Anarchism, uscito in prima edizione per i tipi della Faber nel 1938, e The Philosophy of Anarchism, pubblicato dalla Freedom Press nel 1940, sono tra quei testi fondamentali la cui influenza ha spinto a definirsi anarchici tanti della mia generazione e qualcuno un po’ più anziano di me. Il che vale per svariati suoi lettori, compreso Murray Bookchin. Negli anni Trenta, quando Philip Sansom era ancora uno studente a West Ham, lui e i suoi compagni furono molto colpiti dalla lettura del libro di Read Art and Industry, uscito nel 1934. Poco prima che Philip morisse gli avevo mandato la raccolta di saggi di Read da te curata, Herbert Read Reassessed, e mi telefonò per ribadirmi che quando, nel 1943, era entrato nel movimento anarchico era rimasto sorpreso scoprendo che anche il suo maestro di design era un sostenitore dell’anarchia.
Alex Comfort l’ho conosciuto invece nel 1946, quand’ero ancora sotto le armi, anche se ormai libero di partecipare alle riunioni della domenica sera del London Anarchist Group. L’incontro con George Orwell è avvenuto mentre beveva un tè nell’anticamera della Holborn Hall di Grays Inn Road, quando George Woodcock l’aveva convinto a intervenire a una riunione per chiedere la liberazione di quegli sfortunati fuorusciti spagnoli, prigionieri in Francia prima dei tedeschi e poi degli inglesi e ancora internati in un campo di concentramento nel Lancashire.

Soffocante clima sessuale

Read e Comfort erano gli anarchici inglesi più noti all’epoca. Che impressione ti facevano come persone? E che giudizio dai delle loro opere?

Read era un tipo tranquillo e gentile, ma quando ci incrociavamo, esitavo a rivolgermi a lui perché sapevo che era importunato in continuazione da aspiranti poeti e romanzieri che sollecitavano il suo aiuto per far pubblicare i loro capolavori. A me interessava solo chiedergli il permesso di pubblicare il testo di una sua trasmissione su “Freedom” o su “Anarchy”.
Stimavo Read perché la sua attività di promozione dell’anarchismo raggiungeva un pubblico molto più vasto di quello che la maggior parte di noi poteva sognarsi. Il suo Education through Art, insieme all’opuscolo pubblicatogli da Freedom Press, The Education of Free Men, erano importanti non tanto per il contenuto ma perché davano un riferimento di tutto rispetto a quegli insegnanti che incontravo e che già da soli si battevano perché si riconoscesse il ruolo dell’arte nell’educazione. Verso la fine degli anni Settanta ho avuto (tra le altre cose) il compito di diffondere il ricorso all’espressione artistica nell’educazione ambientale e ho potuto riscontrare che gli scritti di Read godevano ancora di un’alta considerazione in campo intellettuale.
La cosa potrà farti sorridere, ma per me all’epoca la cosa mi è stata d’aiuto.
I rapporti con Alex Comfort erano più semplici, perché aveva un carattere allegro e scherzoso. Come sai, la sua prima presa di posizione pubblica a favore della libertà sessuale si trova nel libro che gli aveva pubblicato nel 1948 Freedom Press, Barbarism and Sexual Freedom, basato sulle conferenze che teneva al London Anarchist Group. Nessun lettore di oggi, dopo oltre mezzo secolo, è in grado di capire quanto fosse soffocante il clima sessuale in quei giorni, anche per chi conduceva una vita normale, e gli sarebbe difficile valutare appieno la sottile intelligenza di Comfort, che ricorreva al ridicolo per mettere a nudo e smontare gli atteggiamenti autoritari. Per me è stato importante il metodo aperto con cui illustrava a noi tutti i temi centrali della sociologia.
Non ho detto niente di Read e di Comfort come romanzieri e poeti perché la loro importanza, secondo me, sta nei testi che hanno affrontato le tematiche sociali e non nelle opere “di creazione”.
Ma se sono entrato a far parte della serie di reti di relazioni e di dibattito che comprendeva anche loro, questo lo devo, in fondo, all’iniziativa che l’allora ventunenne Vernon Richards aveva avviato alla fine del 1936 per far rinascere la stampa anarchica a Londra. Sul numero che celebrava i cento anni di “Freedom”, Philip Sansom ha scritto:

Se Richards non avesse dato il via a “Spain and the World”, tutta la storia del movimento anarchico inglese moderno sarebbe stata non dico diversa, ma inesistente, perché è da quel primo seme che è nata. E il movimento odierno, con tutte le sue diramazioni, si è sviluppato in gran parte grazie al gruppo ispirato da Freedom Press…

David Goodway

nota:
1. Trad. it.: Viaggio attraverso Utopia, coop. Tipolitografica, Carrara, 1981.

elèuthera

David Goddway

Conversazioni con Colin Ward
lo sguardo anarchico
128 pp. / € 9,00

GLI AUTORI

David Goodway, nato a Rugby nel 1942, insegna nell’Università di Leeds e si occupa di storia sociale e culturale moderna e contemporanea.

Colin Ward, nato nel 1924 in un sobborgo di Londra, ha iniziato a lavorare in uno studio di architettura, per poi diventare insegnante, pubblicista, conferenziere, scrittore. Ha pubblicato una trentina di libri, di cui quattro tradotti in italiano: La pratica della libertà (Elèuthera, 1996), Dopo l’automobile (Elèuthera, 19972), La città dei ricchi e la città dei poveri (E/O, 1998), Il bambino e la città (L’ancora del Mediterraneo, 2000). Nel 1984 ha ricevuto la laurea honoris causa dell’Università del Middlesex e nel 2001 il dottorato onorario in filosofia dell’Anglia Polytechnic University. Nel 1996 è stato visiting professor alla London School of Economic.